Siamo ormai abituati ad utilizzare il termine caregiver per indicare chi si prende quotidianamente cura di un anziano, di un malato o di un disabile. In Italia sono tantissimi, e molto spesso appartengono alla sfera familiare del paziente: si tratta di congiunti che ogni giorno, a tempo pieno, si occupano del soddisfacimento delle esigenze di chi non è più autosufficiente.

Che i caregiver possano sviluppare ripercussioni negative per la propria salute psicofisica è un fatto ormai noto e non stupisce: il compito che svolgono quotidianamente è gravoso ed estremamente delicato, spesso alienante. Molti sviluppano forme depressive determinate dal senso di solitudine e di abbandono: una condizione che negli ultimi mesi è stata esacerbata dal lockdown, dall’isolamento e delle varie restrizioni cui siamo tuttora e a ragione sottoposti.

Ma qualcosa sta cambiando: negli ultimi tempi consapevolezza intorno alle difficoltà che questo ruolo sottintende è cresciuta, e si è presa coscienza della necessità non più trascurabile di fornire a questa categoria gli strumenti adeguati allo svolgimento delle proprie mansioni, e non solo dal punto di vista strettamente assistenziale. Lo dimostra ad esempio la nascita di vere e proprie scuole per caregiver, nate anche con lo scopo di stimolare a livello istituzionale una riflessione complessa che abbia come risultato un iter legislativo volto al riconoscimento, alla valorizzazione e al supporto concreto di chi svolge questo ruolo.

È naturale, in ambito assistenziale, che l’attenzione si focalizzi sul malato e sulle sue esigenze ma bisogna tenere sempre presente che i caregiver svolgono quotidianamente attività complesse e di grande responsabilità: i rischi legati al loro stress fisico e mentale non possono essere sottovalutati, perché è proprio dal loro benessere che dipende quello dei pazienti che assistono.