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L'ictus nei pazienti della terza età

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Sono più di 200.000 le persone che ogni anno in Italia vengono colpite da Ictus: esso si posiziona infatti al terzo posto tra le più frequenti cause di morte nel nostro paese ed interessa nel 75% dei casi la popolazione dai 65 anni in su.

Il tessuto cerebrale ha bisogno dell’ossigeno apportato dalla circolazione sanguigna per vivere, e senza di esso muore progressivamente perdendo in maniera più o meno reversibile le proprie funzioni: è questa la condizione che si verifica con l’insorgenza improvvisa dell’ictus, noto anche come colpo o attacco apoplettico, infarto cerebrale o stroke, che consiste infatti in un’interruzione dell’apporto di sangue ad un’area più o meno estesa del cervello.

Spesso però la sede primaria della malattia non è il cervello, ma il cuore o i vasi arteriosi: può infatti accadere che a fare da ostacolo alla circolazione del flusso ematico siano un coagulo, un suo frammento o ancora la rottura di una parete arteriosa.

In base alle suddette cause scatenanti, si distinguono due forme di ictus, ciascuna delle quali è suddivisa in sottogruppi:

  • ictus ischemico (che comprende ictus trombotico e ictus embolico)
  • ictus emorragico (che può essere intracerebrale o subaracnoideo)

L’attacco ischemico transitorio (TIA) si può ricondurre alla prima categoria e ne presenta i medesimi sintomi, con l’unica differenza che essi si esauriscono in tempi brevi e non sono permanenti.

Fondamentale è ovviamente la prevenzione: se non si può intervenire sui fattori di rischio che definiamo non trattabili, quali età, sesso, razza o familiarità della malattia, si può e si deve agire su quelli invece potenzialmente trattabili tramite rimedio farmacologico o comportamentale, ovvero l’ipertensione cronica, il fumo sia attivo che passivo, il colesterolo alto, il diabete, l’obesità e il sovrappeso, le malattie cardiovascolari, l’eccesso di alcool e l’uso di droghe.

Le possibilità di recupero in seguito all’insorgere della malattia dipendono ovviamente dalla lesione che ne è conseguita, ma si può dire che difficilmente il soggetto interessato potrà tornare alla vita che si svolgeva precedentemente: quasi sempre i ricoveri sono lunghi, e una volta dimessi i pazienti presentano varie forme di invalidità, con importanti limitazioni nello svolgimento delle attività quotidiane.

L’autonomia dei pazienti risulta spesso seriamente compromessa e necessita di un piano di assistenza che deve essere attentamente elaborato in base alle proprie condizioni di salute ed esigenze.

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